Annie Ernaux, fuori e dentro la fotografia

17 Aprile 2024

Dura fino al 26 maggio la mostra che la MEP di Parigi dedica ad Annie Ernaux e al suo rapporto con la fotografia. Il titolo scelto è Extérieurs: la curatrice inglese Lou Stoppard ha selezionato una serie di opere, perlopiù dalle collezioni del museo, per farle dialogare con stralci del Journal du dehors, sorta di breve diario pubblicato nel 1993 (in italiano Diario dalla periferia, tradotto per Rizzoli nel ‘94 da Romana Petri) in cui l’autrice raccoglie appunti presi tra l’85 e il ’92.

Osservazioni e pensieri scaturiti da scene viste in metro, per strada, nei supermercati si susseguono come una carrellata di scatti fotografici: l’obiettivo dichiarato dall’autrice nella prefazione è quello di raggiungere una «scrittura fotografica del reale», di cui troverà un modello ineguagliato nei soggetti delle foto di Paul Strand a Luzzara, nella loro «presenza violenta, quasi dolorosa» (oggi nel volume Un paese, in collaborazione con Cesare Zavattini, edito da Einaudi, vedi recensione qui). Se è vero che «notre vrai moi n’est pas tout entier en nous», come recita l’esergo rousseauiano, è solo attraverso gli altri che possiamo tentare di conoscerci davvero, esercitandoci nella pratica dell’io transpersonale che è alla base della poetica di Ernaux.

Cosa aspettarsi, dunque, da questa mostra? Non troppo, se si conosce già il Journal; qualcosa in più se non lo si è mai letto. Diciamo in via preliminare che non è mai semplice creare a posteriori una proficua interazione fra testo e immagine, in modo da produrre un surplus di senso; ancora meno semplice quando il testo in questione ha già una sua fortissima valenza fotografica, per cui l’accostamento a una vera e propria immagine rischia di rivelarsi didascalico, quando non fuorviante. 

La mostra è articolata in cinque sezioni: Intérieur/Extérieur, Confrontations, Traversées, Lieux de rencontre, Faire société. Le scelte della curatrice sono eterogenee: fotografi francesi e stranieri, di oggi e di ieri, i cui lavori spaziano anche geograficamente tra Europa, Giappone, Stati Uniti. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di lavori di alto valore estetico: basti come esempio lo splendido scatto sul vaporetto di Venezia di Gianni Berengo Gardin.

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©Gianni Berengo Gardin – Courtesy GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino – Proprietà della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT.

Il raccordo con gli stralci del Journal di Ernaux proposti, però, raramente funziona. Innanzitutto la scelta di stamparli su carta, in colonna per via dell’inevitabile traduzione inglese a fronte, non è di grande effetto: paradossalmente, così separati gli uni dagli altri, gli estratti citati perdono la potenza evocativa che risiede nella loro stessa natura di frammento – forma che Ernaux governa con maestria –, risultando alla fine meno “fotografici” che all’origine. Se nel libro la lettura in successione riesce al contempo a restituire il ritmo di un flusso narrativo e a cristallizzare la scrittura in istantanee fatte di parola, nel corso della mostra sembra invece di leggere delle mere porzioni di testo: l’emblematicità della forma breve, il suo stesso riconoscimento risultano indeboliti proprio dall’estrapolazione. 

Una curatela più spregiudicata, poi, avrebbe potuto giocare col supporto: proiettare dei frammenti sulla parete, proporre qualche audiolettura in cuffia, evitando di ripetere sistematicamente lo schema di fogli attaccati al muro.

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Non soddisfano, inoltre, scelte prettamente tematiche: le periferie di Mohamed Bourouissa o le scene di strada di Garry Winogrand; i supermercati, gli autobus e i passanti di Jean-Philippe Charbonnier, così estetizzati e catchy, troppo marcati nei contrasti di luce e dunque ben distanti dalla ricerca della verità di Ernaux, dal suo incessante sforzo verso una écriture plate

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Jean-Philippe Charbonnier, «Où qu'c'est qu'elle est passée?», Carrefour, Villiers-en-Bière, 1973 Tirage gélatino-argentique Collection MEP, Paris. Don de l’auteur en 1984 ©Jean-Philippe Charbonnier / Gamma Rapho.
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©Jean-Philippe Charbonnier.

Va meglio invece con la fotografia giapponese: gli istanti di banalità significante di Daido Moriyama e soprattutto il meraviglioso polittico di Hiro, in cui è raffigurata la folla di passeggeri in un treno di Tokyo negli anni ’60, trovano una sintonia più autentica col testo.

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Hiro, Shinjuku Station, Tokyo, 1962. Tirages gélatino-argentiques. Collection MEP, Paris. Don de la Fondation Elsa Peretti en 2008.© The Estate of Y. Hiro Wakabayashi.

Qui sembra effettivamente di sentire Ernaux recitare che «la verità è legata alla realtà», come leggiamo in uno dei brani del Journal: frase raccolta casualmente sbirciando il compito che uno studente tiene fra le mani, seduto accanto a lei in metro. Sembra quasi di intravedere nella folla di Tokyo il senzatetto trentenne che, in piedi nel vagone, si alza la maglietta e inizia a contemplarsi la pancia: se non si hanno più né casa né lavoro, si chiede l’autrice, quando comincia la noncuranza nel compiere in pubblico gesti naturali ma considerati fuori luogo dalla società in cui viviamo?

Le composizioni di una pluralità di scatti, in generale, si accordano meglio alla fruizione del libro, forse anche perché in esse, di solito, ogni immagine è intrinsecamente parziale, non autosufficiente, e deve quindi rimandare ad altro; in modo simile i frammenti di Ernaux non si esauriscono tra uno spazio bianco e l’altro della pagina, ma strabordano, proseguendo per vie sotterranee.

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Mika Ninagawa, TOKYO, 2019 Tirage jet d'encre à pigments ©Mika Ninagawa, Courtesy of Tomio Koyama Gallery.

Alcuni accostamenti riusciti riguardano la rappresentazione delle differenze sociali, un cardine dell’autosociobiografia ernausiana: l’anziano cameriere dalla schiena ricurva e la ricca signora che fa compere natalizie da Dior, ritratti da Janine Niepce; o, ancora, la Tokyo anni ’50 di Ihei Kimura.

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A sinistra: Janine Niepce, Restaurant époque 1900. Le garçon de café, 1957 - Tirage gélatino-argentique Collection MEP, Paris. Acquis en 1983.© Janine Niepce / Roger Viollet. A destra: Janine Niepce, Une cliente portant des paquets-cadeaux dans une boutique Dior, au moment de Noël, Paris, 1957.

La relazione fra testo e immagine riesce dunque in modo intermittente in questa mostra cui Ernaux ha collaborato in maniera attiva, come a quasi tutti i progetti che la riguardano; un caso felice è ancora quello di alcuni scatti di Harry Callahan, in cui la donna che cammina sola può evocare sia la narratrice nelle sue peregrinazioni quotidiane, sia il sempre vigile sguardo dell’autrice sull’universo femminile.

Alla fine, il pubblico riesce a sentirsi «attraversato dalla gente, dalla loro vita, come una puttana», secondo quanto scrive Ernaux nel Journal? In una certa misura. Se è forse stata giusta la scelta di tralasciare tutto l’intenso rapporto dell’autrice con la fotografia (articolato in L’usage de la photo, fra gli altri), focalizzandosi quindi su una sola opera da mettere in dialogo con le immagini, di certo si sarebbe potuto andare un po’ più a fondo, esplorando la complessità di questo testo breve che tuttavia è stato al centro dell’attenzione di Ernaux per anni. Lo si scopre nell’antologia dei suoi diari di scrittura dal titolo L’atelier noir, in cui al progetto del Journal si fa spesso riferimento con la sigla «VN», ossia ville nouvelle: si tratta di Cergy, il comune fuori Parigi dove l’autrice vive dalla metà degli anni ’70; la città nuova rappresenta «la geografia buia della vita postmoderna, privata di tempo, di genealogia e di storia», come ha scritto Tiphaine Samoyault in un articolo pubblicato sul Cahier de l’Herne dedicato all’autrice. 

È un’opera, il Journal, che contiene anche una certa dose di violenza, più o meno trattenuta, spesso declinata sul piano dell’alienazione, dell’atomizzazione della società: l’ostentata indifferenza dei passeggeri nei confronti di un ragazzo che si taglia le unghie in metro, felice nella sua insolenza; l’irascibilità della madre di fronte al giovane figlio che sogna di partire; animali morti in autostrada, parcheggi sotterranei in cui «nessuno ti sentirebbe gridare in caso di stupro», Mitterand che alla TV parla delle «petites gens» come di persone inferiori. E ancora, considerazioni politico-linguistiche, ad esempio sull’aggettivo «nul» (nullo, che non vale niente), il cui uso per l’autrice definisce il subumano a partire dal liberalismo degli anni ’80.

C’è nel Journal una cupa incisività di sottofondo che trapela solo a tratti visitando Extérieurs, nelle opere che conservano una certa «opacità», un’enigmaticità sommessa — qualcosa che in fondo risiede nell’occhio di chi guarda più che in quello di chi è guardato, nelle sue ossessioni, ricordi, gusti: per Ernaux sono gli altri che, «attraversandoci» nel momento in cui li osserviamo, risvegliano la nostra memoria e ci rivelano a noi stessi.

A volte mi è capitato di ritrovare frasi e gesti di mia madre in una donna in fila al supermercato. È fuori, infatti, nei passeggeri della metro o della RER, nelle persone sulle scale mobili delle Galeries Lafayettes o di Auchan che si deposita la vita che ho vissuto. In quegli individui anonimi che non immaginano di custodire una parte della mia storia, in facce e corpi che non rivedo mai. Forse anch’io, nella folla in strada e nei negozi, porto dentro di me la vita degli altri [Journal du dehors, trad. mia].

In copertina, Harry Callahan, France, 1958. © The Estate of Harry Callahan / Courtesy Pace/MacGill Gallery, New York. Collection Maison Européenne de la Photographie, Paris - Don de l’auteur.

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