Matthiae, Distruzioni, saccheggi e rinascite / Attacchi al patrimonio artistico dall'antichità all'ISIS

3 Giugno 2016

«Mieux vaut un désastre qu'un désêtre», scriveva Alain Badiou in uno dei saggi raccolti in Conditions. In copertina, un'immagine divenuta iconica, un fotogramma video – che qui appare sgranato, in modo, quasi, da sospendere l'evento nel tempo, come a ricordarci un interminabile da sempre e per sempre – della distruzione del tempio di Baal Shamin a Palmira, proprio quella scelta da ISIS perché fosse diffusa sui social media, nell'agosto del 2015, a testimonianza propagandistica di una conquista definitiva, della distruzione, di una furia barbarica antica quanto l'uomo. 

 

A guardare l'imponente colonna di fumo che si leva altissima, si percepisce il boato dell'esplosione in tutta la sua violenza, fisica e ideologica. Susan Sontag problematizza l'uso della fotografia e la sua eco tra diversi media di informazione, l'occhio della camera di fronte alle sofferenze dell'umano, affrontando così la questione etica, oltre che estetica, di un rapporto conflittuale, quello tra arte e realtà. Inoltre, ci dice quanto l'estetica del disastro liberi lo spettatore da obblighi 'normali' e ci riconduce ad essere soltanto spettatori che rispondono a un invito: Guarda! (cfr. cit. in Belpoliti, L'età dell'estremismo). 

Un disastro che lascia il deserto dietro di sé. Il deserto del reale: realtà reale, scena già vista, visione drammatica, traumatica, che, superando di gran misura l'immaginazione, produce l'effetto žižekiano di irrealtà, troppo incredibile perché possa essere vero. Nel cuore di chi scrive, l'abbattimento delle Twin Towers e la caduta di Palmira sono un unicum continuo.

 

Solo un anno prima, la stessa furia rade al suolo la sacra Moschea di Jonah a Mosul; pochi mesi dopo, sono le antiche statue assire nel museo della città a essere violate e lo scempio viene minuziosamente documentato in un video ostentato in rete; in seguito, la distruzione dei resti archeologici di Hatra e del sito assiro di Ashur, oltre ai saccheggi prolungati di Ninive e della Nimrud medievale. Un elenco accurato sarebbe dolorosamente troppo lungo. In risposta al vandalismo di Daesh il governo iracheno è riuscito a riaprire il Museo Nazionale di Baghdad, depredato nel 2003. 

 

Babilonia, rovine. 

 

È solo l'ultimo atto (lungo, frammentato, ripetuto) di una storia millenaria, raccontata con grande vis narrativa, un linguaggio cristallino e ampissima cultura, da Paolo Matthiae, archeologo militante sul campo e accademico di clara fama, il cui nome è indissolubilmente legato alle molteplici campagne di scavo (dal 1964 al 2010) che riportarono alla luce l'antica città di Ebla, in Siria.

Questo libro (Distruzioni, saccheggi e rinascite. Gli attacchi al patrimonio artistico dall'antichità all'ISIS, BibliotecaElecta, 2015) affronta temi più che mai attuali, come la perdita irreparabile del Patrimonio, subìta talvolta «per la cecità della natura, ma molto di più per la violenza, non meno cieca, degli uomini» (p. 5), uomini impuri, spaventati dalla Storia, incapaci di vedere la bellezza per ciò che è, bellezza, primitiva bellezza, e che, invece di proteggerla e contemplarla, la violentano con furia inaudita. 

Benché sempre fondata sulla Storia e sulla scienza della ri-scoperta, si tratta di una riflessione personale, dunque soggettiva, memoriale, a tratti persino affettiva, sicuramente poetica e partecipata di un uomo che, alle rovine, ai frammenti ritrovati, a ciò che resta, ha dedicato l'intera vita. Pagine, a detta dell'autore, prive di ogni sistematicità, dedicate alla memoria di un giusto, Khalid al-Asaad, che «ha eroicamente sacrificato la propria vita per proteggere i resti splendidi e immortali di una delle più affascinanti città del mondo antico, Palmira, conservatore per oltre quarant'anni della città di Zenobia, conoscitore impareggiabile dei suoi tesori d'arte, ambasciatore nel mondo delle sue sfolgoranti bellezze» (p. 7). 

 

Zénobie, Zenobia. Calvino diede questo stesso nome a una delle sue città invisibili, una città sottile, leggera, sospesa, alta e slanciata. Molti direbbero felice, altri, capace di dare forma ai desideri, attraverso gli anni e i continui cambiamenti, le molteplici stratificazioni. 

La storia, impreziosita dal mito e dalla leggenda, narra che l'Augusta, illustre Zénobie fosse una regina agguerrita, tanto indipendente da autoproclamarsi discendente di Cleopatra e sottrarre il suo Stato al controllo di Roma; una combattente dal carattere tremendo – note sono le sue campagne di espansione in Egitto, Bitinia e in Asia minore – ogni fonte concorda nel descriverla come una donna di straordinaria bellezza e soprattutto cultura. 

 

Cavalli bronzei, S. Marco. 

 

Si ha come la sensazione che questa ricchissima città, sorta in posizione strategica sulla via della seta, custode di un incredibile tesoro di sculture, tessuti pregiati, gioielli giunti dal vicino e dal lontano Oriente, dalla Grecia alla Cina attraverso la Persia, assomigliasse in tutto alla sua sovrana.

Il volume, scritto 'cum ira et studio' – ovvero con rabbia e persino rancore, scaturiti dall'indignazione per la 'nuovissima barbarie dei nostri giorni' e con profonda partecipazione, sottolineando in ogni occasione la necessità di tutelare i valori condivisi di uguaglianza, valorizzazione delle diversità e dell'intangibilità del Patrimonio culturale passato e presente come bene comune da consegnare integro al futuro – si articola in un discorso di grandissimo respiro (e non esclusivamente dal punto di vista europeo-occidentale che abbiamo l'uso di considerare privilegiato, quando non unico e universale), sul degrado del tempo dall'antichità all'attualità, dal monumento alla rovina. In apertura di ogni capitolo incontriamo una citazione che è naturalmente chiave ausiliaria di lettura; da Simmel a Panofsky.

 

Supportato così da una sequenza affascinante di brani biblici e letterari, nonché da puntuali riferimenti storico-artistici dal Rinascimento al Settecento, lo studioso accompagna il lettore in un viaggio alle origini della nozione di rovine, attraverso una 'fenomenologia della distruzione' con un lungo resoconto di saccheggi sistematici di opere, nel paradosso tra ferocia distruttiva e ammirazione per l'oggetto della violenza. Spesso, a questi episodi di tabuale rasae, seguono atti illeciti di appropriazione, mossi dalla volontà di rivendicare la propria superiorità o di damnatio memoriae per gli oltraggi subiti; talvolta più che un impossessamento materiale, si assiste ad un'appropriazione squisitamente culturale, come accadde a Roma sia con il furto di opere dalla Magna Grecia sia con la progressiva ellenizzazione e ingentilimento dei costumi. 

Nella premessa è insito un cortocircuito: per un archeologo è, ad un tempo, essenziale e imbarazzante (sperare di) trovare i resti di una distruzione, perché permette che le tracce di una pregressa civiltà siano comunque conservate, congelate, e possano finalmente parlarci. In alcuni casi è proprio il frammento a restituire un ricordo e un'impressione preziosi. 

 

Palmira prima e dopo, panorama. 

 

La 'barbarie attualissima' cui l'autore fa ripetutamente riferimento, non è solo quella del Nuovo Califfato, empio e gonfio di odio tanto ideologico quanto religioso e culturale, scagliato in modo indiscriminato contro ogni simbolo di convivenza, se pur complessa, di diversi credo e civiltà; l'accanimento contro il diverso non colpisce solo testimonianze di paganesimo, ma ugualmente quelle del mondo islamico. Questo fondamentalismo iconoclasta, del tutto estraneo all'Islam tradizionale, è radicato tra i wahhabiti dell'Arabia Saudita. La corrente sunnita più radicale non ammette alcuna forma di alterità né di presupposta idolatria – come un tempio o una vestigia di cristianità, tombe, minareti, ma anche i sepolcri sciiti e gli stessi santuari dei dotti dell'Islam. 

Un altro aspetto di questa barbarie, altrettanto deprecabile, è quello perpetrato da chi, per finanziare i propri interessi economici, facilita l'intensificazione degli scavi clandestini e l'occupazione di luoghi storici, per mano di bande organizzate che partecipano a una rete di commercio illegale sul mercato antiquario internazionale di opere e reperti dell'antichissima civiltà Mesopotamica, sottratte al contesto cui intimamente appartengono, 'patrimonio di pace' destinato all'Umanità intera. Una situazione in qualche misura sostenuta da una silente e ipocrita complicità da parte dei più potenti paesi occidentali dalle ambigue posizioni politiche e sociali. 

 

Il volume, se pur non molto agile, si rivela di scorrevole e piacevolissima lettura anche per chi conosce poco della disciplina, o ne è solo incuriosito: si trovano moltissimi spunti di riflessione storici, culturali e umani oltre che attuali, che sopperiscono a un apparato iconografico forse non ben temperato, rispetto alla vastità dei riferimenti e dei temi affrontati.

 

 

Per finire, l'invito reiterato alla condivisione globale di questi beni, al rispetto e alla valorizzazione delle diverse culture dei popoli, richiama alla mente, nella sua estrema esattezza e semplicità, alcune righe della Storia dell'assedio di Lisbona, del perduto Saramago: «chiaro che siamo in guerra, ed è una guerra di accerchiamento, ognuno di noi assedia l'altro ed è assediato, vogliamo abbattere le mura dell'altro e mantenere le nostre, l'amore verrà quando non ci saranno più barriere, l'amore è la fine dell'assedio».

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