Melodrammatico

19 Aprile 2024

A poco meno di cinquant’anni dalla sua apparizione, e poco meno di quaranta dalla prima edizione italiana (Pratiche, Parma, 1985), il Saggiatore ripropone, nella versione di Daniela Fink e con una prefazione di Mariolina Bongiovanni Bertini, L’immaginazione melodrammatica di Peter Brooks. Scelta encomiabile, perché si tratta di un testo fondamentale della critica letteraria novecentesca: uno di quei libri che, auspicabilmente, non dovrebbero mai scomparire dagli scaffali dei librai. Oggetto primo dell’attenzione di Brooks è una produzione letteraria poco nota: il mélodrame francese di inizio Ottocento, che ebbe all’epoca uno straordinario successo nei teatri dei boulevards parigini, in particolare in quel Boulevard du Temple che si meritò il soprannome di Boulevard du Crime (rievocato nel 1960 da una delle ultime canzoni di Edith Piaf). Autori come Guilbert de Pixérécourt, Louis-Charles Caigniez, Victor Ducange non sono entrati nel canone della letteratura occidentale, e nemmeno in quello della letteratura francese. Ma con le loro opere hanno fornito le coordinate di un modo di raccontare storie che ha influito profondamente sulla cultura letteraria successiva.

In primo luogo sulla generazione seguente, non solo su scrittori come Victor Hugo o Alexandre Dumas fils, che siamo istintivamente inclini a considerare melodrammatici, ma anche su un campione del realismo come Balzac. E addirittura – facendo un ulteriore salto generazionale – su un narratore raffinato e cerebrale come Henry James: nonché su tanti altri autori che Brooks non prende in esame, ma nomina nelle conclusioni (Dickens, Dostoevskij, Conrad, Lawrence). 

A prima vista l’assunto può sembrare paradossale: «James è celebrato per la sua finezza, le sue sottigliezze, l’arte della sfumatura e delle penombre; il suo mondo è fin troppo civilizzato e perbene: che senso ha dunque parlare di lui come di un autore di melodrammi, e sostenere che la sua opera può essere compresa assai più a fondo in un contesto simile?» Ma l’interpretazione di Brooks è persuasiva, e merita di essere registrata con attenzione. Il melodramma propone un’immagine della realtà che si distingue nettamente sia dalla commedia, sia dalla tragedia. A caratterizzarla è il suo impianto manicheo: ciò che la storia inscena è un conflitto tra il Bene e il Male, tra la virtù e la perfidia, incarnata di norma da un villain (o, come si usava dire nella Parigi degli anni Trenta, da un traître, un traditore) che persegue, senza scrupoli e senza esitazioni, obiettivi malvagi, non importa quanto motivati: anzi, l’arbitrarietà delle motivazioni può fare perfino gioco, conferendo alla malvagità una sorta di vertiginosa assolutezza. In comune con la tragedia, il melodramma presenta situazioni angosciose, sofferenze, prevaricazioni, morti violente; ma mentre il personaggio tragico è tormentato dall’impossibilità di conciliare valori divergenti, il personaggio melodrammatico ignora i tormenti introspettivi e i rovelli morali. A dominare sono l’eccesso e l’espressione di sé: le valutazioni morali sono immediate e esplicite, nulla è lasciato sottinteso, tutto è detto e ripetuto, gli estremi sono esasperati.

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Il termine «melodrammatico», nella coscienza comune, si identifica con l’enfasi e la ridondanza, e naturalmente ciò ha a che vedere, eccome, con il melodramma di cui parla Brooks: così come i toni forzati, le affermazioni iperboliche, le antitesi estremizzate, le ostentazioni di solennità. Ma oltre a tutto questo, o meglio, attraverso tutto questo, prende forma nel mélodrame un’estetica della drammatizzazione destinata a diffondersi ben al di là dei teatri del Boulevard du Temple. Il melodramma non si limita a fornire un repertorio di schemi narrativi, di procedimenti retorici, di gesti, di motivi, in cui del resto non è difficile ravvisare eredità della letteratura precedente (a cominciare dal romanzo gotico): quello che fa è definire un sistema espressivo che si fonda sull’eccesso. Non soltanto sull’esagerazione dei toni, ma, più in generale, sull’eccesso del significato rispetto al significante. Ciò che accade, ciò di cui possiamo avere diretta esperienza, è il risultato di eventi profondi, di abissali conflitti. Forze immani si scontrano al di sotto della superficie delle apparenze. E questo avviene appunto anche nella narrativa di Henry James, a dispetto dell’orgia di sottintesi di certe sue trame, o dell’ambiguità di tante sue reticenze. L’esito, distillato dal modello dell’ammirato Balzac, è un «melodramma della consapevolezza», in cui l’unica potenza soprannaturale residua è il Male: come ha scritto Graham Greene, «se mai un uomo è stato ossessionato dall’immagine dell’Inferno, quell’uomo era James». Di contro, alla tradizione melodrammatica non sono riconducibili gli scrittori in cui si può ravvisare una dominante ironica, in primo luogo Flaubert (che James non amava); gli altri nomi che Brooks cita sono Maupassant, Beckett, Robbe-Grillet, Kafka, Joyce. 

Vale la pena di notare la differenza tra il procedimento seguito da Peter Brooks e quello adottato da Tzvetan Todorov in un altro testo assai influente nella teoria letteraria novecentesca, Introduction è la littérature fantastique del 1970 (in italiano La letteratura fantastica, Garzanti, 1977). Todorov s’impegna a mettere a fuoco un genere letterario partendo da una definizione rigorosa, e distinguendolo poi da una serie di categorie contigue (come lo strano o il meraviglioso) o di formazioni ibride (il fantastico strano, il sovrannaturale spiegato). Brooks presenta invece un campo assai vasto: non un territorio perimetrabile, ma un orientamento; non un genere letterario, ma un «modo» – cioè un insieme di procedimenti formali e di ambiti tematici che può accomunare esperienze narrative diversissime fra loro. Nonostante i meriti di Todorov (studioso e saggista ammirevole per una quantità di ragioni), quest’ultima via a me pare senz’altro preferibile: i rapporti fra le opere letterarie sono fluidi, complessi, fatti di sovrapposizioni casuali non meno che di studiate divergenze, di incroci inattesi, di parentele segrete, di sorprendenti affinità. Per parlarne abbiamo bisogno di una terminologia che eviti le eccessive ambizioni di esattezza; l’esattezza dovrebbe essere l’obiettivo dell’operazione critica – cioè dell’approssimazione al testo – non delle componenti della griglia teorica. 

Ma si diceva all’inizio dei testi critici che dovrebbero essere disponibili sempre, come i classici della letteratura. Fra questi va sicuramente annoverato Angelus novus, la raccolta di saggi e frammenti di Walter Benjamin che Renato Solmi tradusse per Einaudi nel 1961. A confermarlo è il recente volume di Byung-Chul Han, filosofo e saggista sudcoreano attivo in Germania: La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana, tradotto da Armando Canzonieri, sempre per Einaudi. Si tratta di una lettura abbastanza agile e non inutile; ma l’impressione è che, a conti fatti, non sia molto più che un lungo commento al saggio di Benjamin Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, scritto nel 1936 e compreso in Angelus novus (e da Einaudi proposto nel 2011 anche in un volumetto autonomo con prefazione di Alessandro Baricco).

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Gezicht op de Boulevard du Temple, Parijs, anonymous, c. 1851 - c. 1880.

La tesi di Han è che l’attuale diffusione del cosiddetto storytelling, cioè l’applicazione di modalità narrative a una quantità di forme di comunicazione, sia in realtà il sintomo di una crisi della narrazione vera e propria: a dispetto delle apparenze, secondo Han, viviamo addirittura in un’epoca post-narrativa. Il nocciolo del problema consiste nell’antitesi fra racconto e informazione, che rappresentano (come diceva Benjamin) forze contrapposte, perché il racconto esige lontananza, laddove l’informazione punta a rendere ogni evento prossimo, presente, e perciò (almeno in apparenza) controllabile. Il nostro tempo è caratterizzato da uno «tsunami dell’informazione», che preclude l’attenzione necessaria all’esperienza narrativa: «impedisce l’indugiare contemplativo che è costitutivo tanto del raccontare quanto del restare all’ascolto». Indizio eloquente dell’attuale crisi della narrazione è l’attribuzione del sostantivo story a materiali postati sui social (parole o immagini), volatili per definizione.

Tutto condivisibile, naturalmente; ma è lecito domandarsi se le tesi di Byung-Chul Han reggano la misura del libro. Un lettore appartenente alla categoria dei baby-boomers – dei boomers, anzi, come s’usa dire oggi, forse auspicando un rapido esaurimento del fallout – è portato a chiedersi se non sarebbero state meglio valorizzate nella forma di una nuova, attualizzante prefazione a Angelus novus (beninteso, conservando in apparato le pagine di Renato Solmi), o magari al solo Narratore. Ma è chiaro che qui entrano in gioco valutazioni di tipo editoriale su cui non posso accampare le competenze necessarie. Resta comunque quanto mai encomiabile l’iniziativa delle case editrici che contribuiscono a tenere in catalogo i classici della saggistica contemporanea: come il Saggiatore (che fra le altre cose ha ripubblicato nel 2020 Che cos’è la letteratura di Jean-Paul Sartre), o come Quodlibet, che da alcuni anni sta riprendendo le opere di Carlo Ginzburg, e l’anno scorso ha proposto il Furio Jesi di Mito (arricchito da un testo inedito). È questo un modo di contrastare l’alluvione dell’effimero che contraddistingue la nostra epoca. Se leggere è necessario, rileggere lo è ancora di più, e oggi più che mai. 

In copertina, Theaterpubliek, Hippolyte Michaud, 1840 - 1886.

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