Territà

22 Aprile 2024

Earth Day, Istituto Italiano di Cultura a Washington, aprile 2000. In quel periodo abitavo a Parigi. Non ricordo niente del viaggio verso gli Stati Uniti, ricordo che mi diedero un appartamento vicino al Watergate Hotel. Ricordo il Lincoln Memorial, le zanzare sul fiume Potomack, un vecchio pub schiacciato tra due grattacieli come la casa di Up!, la sede del FBI e quella del National Geographic. Non ricordo che cosa dissi all’Istituto di Cultura, forse qualcosa sul “camminare paesaggi”, ricordo che ero là per celebrare il trentesimo Earth Day, una ricorrenza che pochi mesi prima non sapevo neanche che esistesse. Oggi, in Italia, aprile 2024, le manifestazioni a tema sono più di seicento, ma l’impressione è che in un quarto di secolo non solo abbiamo perso il treno ma abbiamo demolito la stazione. Penso al Pasolini di Petrolio, allora, che comincia il Racconto dei Godoari con la stazione di Torino in rovina, un collasso urbano che fa da soglia a una peregrinatio naturalis dentro paesaggi sempre più inumani, sempre più selvatici e alieni. Perché la tentazione narrativa è forte: la civiltà e la wilderness sono parallele divergenti all’infinito. Perché Homo sapiens e la Terra hanno divorziato per sempre. 

Faccio un passo indietro. Maggio 1982. Viene presentato a Cannes E.T. the Extra-Terrestrial di Steven Spielberg. Dopo Close Encounters of the Third Kind del 1977 era come passare da un cocktail Martini a una piña colada. Mentre il secondo è rivedibile all’infinito, anche solo per il cameo di Truffaut, il primo, a più di quarant’anni di distanza, è imbarazzante. Eppure, la frase «E.T. Phone Home» ha sul fondo qualcosa di perturbante, e di vero: la casa dell’alieno è il suo intero pianeta, l’alieno è la proiezione narrativa del piccolo Spielberg che cerca di superare il trauma del divorzio dei genitori. Una duplice perdita dell’abitare, dell’abitarsi, il dovere e l’impossibilità di fare casa. È l’alienazione dell’alieno, come in Sentry di Frederic Brown, un racconto del 1954 che lessi da bambino uscendone, come tutti quelli che l’hanno letto, spostato, perché mentre un po’ alla volta ti identifichi con il protagonista, alla fine scopri che il nemico della sentinella sei tu, sei tu l’alieno. Ecco. Il punto è questo. L’Antropocene, che per alcuni geologi non esiste, è un evento culturale globale che dice proprio questo: l’umano contemporaneo è alieno a sé stesso, oggi le sue azioni distruttive lo hanno reso un traditore di specie come i collaborazionisti di The Three-Body Problem di Cixin Liu, oggi per ripensare la Terra dobbiamo immaginarci fuori dalla Terra come se fossimo noi gli alieni «telefono casa», e alla fine dobbiamo “riatterrare” sulla Terra per sentirci non più umani ma terrestri.

Queste sono le premesse. Essere, sentirsi terrestri, come diceva Bruno Latour. L’implicazione facile è quella dell’inclusione non-specista: anche gli animali, le piante e i paesaggi geologici sono terrestri, dunque siamo tutti sulla stessa barca, eccetera eccetera. L’implicazione verticale è quella del cosiddetto prospettivismo antropologico: tu sei altro da me, ma forse tu mi vedi proprio come io vedo te, quindi devo stare attento a come ti guardo e a come penso che mi pensi. In entrambi i casi c’è un’implicazione etica che rigetta il delirio antropocentrico e che trascende le narrative post-umane in nome di una diversità complessa, negoziabile, virtuosa. Il problema è che pensarsi terrestri è ormai tanto difficile quanto pensare la Terra, che non è più il pianeta galileiano o l’invenzione culturale di cui parla Franco Farinelli, ma è una metanarrazione che intercetta zone diverse, dalla geologia alla climatologia, dalle scienze dure alle ontologie indigene, dalle paure apocalittiche alle prassi di salvezza. Il problema è che la Terra è un sistema di sistemi in cui umani, batteri, organismi semplici e complessi, regni, varietà, specie, aragoste, primule, culture formano qualcosa où tout se tient, che non è ciò che chiamiamo banalmente ecologia, ma che è l’unica e sola condizione di abitabilità di un deserto potenziale, di una Terra che rischia la morte.

Il Landnámabók è un corpus di manoscritti norreni, per lo più del XIII-XIV secolo, che racconta la prima colonizzazione dell’Islanda tra l’870 e il 930. È un “libro d’insediamenti” pieno di fattorie, fiordi e faide in cui la grande assente è proprio l’Islanda. Ovviamente ci sono tracce di geografia fisica, della toponomastica di appropriazione e del superficiale impatto antropico dei coloni, ma l’Islanda della mente, quella che lievitava nell’immaginario di individui e comunità e che un po’ alla volta ha impregnato di sé un’intera cultura e ne ha determinato la vera specificità, è qualcosa di così impalpabile, di così aleatorio, che è quasi impossibile parlarne. Questo qualcosa è la “territà”, un metaconcetto che respinge ogni definizione ma che ci aiuta a descrivere il processo di coevoluzione genetico-culturale tra Homo sapiens e il corpo terrestre. Qualcosa che mentre regalava ai nostri antenati la posizione eretta, il pollice opponibile e un bacino abbastanza largo da far nascere piccoli dal cervello più grande, modellava a propria immagine e somiglianza il paesaggio cognitivo dei protoumani, una mente paesaggistica progettata per leggere la Terra in tutta la sua complessità materiale e simbolica. Riatterrare sulla Terra significa questo, allora, rieducarsi alla fenomenologia del primo approdo, farsi navigatori con crani simili a camere chiare, pronti a lasciarsi impressionare da ghiacciai e vulcani del mistero. 

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In Per chi suona la campana, Hemingway scrive un passaggio vertiginoso che aggiunge all’equazione landscape/mindscape una variabile essenziale. Il brano va letto per intero:

Ci fu poi per Maria l’odore dell’erica schiacciata e la ruvidezza degli steli piegati sotto la sua testa e il sole brillò sugli occhi chiusi. Per tutta la sua vita egli non potrà dimenticare la curva di quel collo, e la testa rovesciata tra le radici dell’erica, e le labbra che si muovono appena, e le ciglia palpitanti sugli occhi chiusi per scacciare il sole, e ogni cosa; per Maria tutto era rosso e arancione e d’oro per il sole sugli occhi chiusi, e tutto aveva il colore; tutto, il riempirsi, il possedere, il dare, tutto aveva quel colore stesso, in una cecità che era di quel colore. Per lui era una via oscura che non portava in nessun posto, e ancora in nessun posto, di nuovo in nessun posto, di nuovo ancora in nessun posto e sempre eternamente in nessun posto, coi gomiti duramente affondati nella terra, nel buio, senza fine verso nessun posto, sempre e continuamente sospeso verso l’ignoto nessun posto, ma per rinascere di nuovo e sempre in nessun posto, insopportabilmente ora, su, su, su e in nessun posto, e poi bruscamente, roventemente, tutto il “nessun posto” è svanito e il tempo assolutamente fermo e loro due lì, il tempo essendosi fermato: ed egli sentì la terra mancare sotto di sé e sprofondarsi. 

A un certo punto Robert Jordan chiede a Maria: «Hai sentito come si muoveva la terra?», «Sì, mentre morivo. Abbracciami, ti prego» risponde lei. Poco dopo Maria vuole sapere: «E poi la terra ha tremato. Non l’avevi mai sentita tremare, prima?», «No. Davvero mai» risponde lui. 

Eros e mistero. Nella condizione di colpa e di lutto che ci lega a una Terra che sentiamo di avere stuprato, nel sapere di non poter essere più come Maria e Robert, quando pensiamo al grande corpo terrestre che dovrebbe farci da casa e da amante, lo pensiamo immancabilmente con durezza algida, con imbarazzo e insofferenza, col distacco mutilo di chi ha smesso di sentirsi corpo grazie al corpo altrui. In questo stato di amputazione tutti i grandi discorsi sull’abitare, sul reincanto e sul ricominciare suonano come parole scariche in una stanca seduta psicanalitica. Uno stallo desolante. Eppure, la soluzione è lì, sotto i piedi. Seamus Heaney lo fa dire ad Anteo: «Quando dormo sdraiato per terra / Mi alzo radioso come una rosa al mattino, / Nelle lotte cerco sempre di cadere / Per strofinarmi nella sabbia // Che per me è come un elisir. / Non posso essere svezzato / Dal lungo profilo della terra, dalle sue vene di fiumi. / Quaggiù nella mia caverna // Sorretto da rocce e radici / Mi culla il buio che mi tenne in grembo / E in ogni arteria mi nutrì / Come se fossi un piccolo colle».

Non so se siamo Anteo attaccato dall’Antropocene. Non sono certo che ripensare, reimmaginare, riraccontare la Terra possa bastare per restituire alla nostra specie l’energia necessaria per non soccombere e per ricominciare un’altra forma di vita tra le rovine. Quello che vedo è che ogni popolo che ha vissuto su questo scoglio azzurro ha trovato nella Terra il suo orizzonte primario di alterità e di altrove, una base irriducibile per radicarsi nel caos o, forse, più semplicemente, un modo per sentirsi a casa. La variabilità culturale degli umani si è espressa anche in questo con innumerevoli declinazioni locali, con narrazioni uniche e irripetibili, il cui minimo comun denominatore è il terreno sotto i piedi, la presenza di un ambiente di vita, un luogo di appartenenza. Quello che però lega davvero tra loro questa babele di pensieri, di visioni e di racconti è che poi, a un certo punto, ogni popolo, ogni individuo, ha alzato lo sguardo e, sopra terre così diverse, ha visto un unico cielo stellato, o nubi famigliari spinte dal vento. Diecimila terreni, un unico pianeta. Diecimila cosmologie, un unico cosmo. 

È nella natura delle cose. Anche questa Terra finirà. Perciò non basta guardarla solo un giorno ad aprile. Tutti i giorni della Terra, tutti, passati, presenti e quelli che verranno, chiedono la nostra Territà. Qualcosa che è in noi, non là fuori. Ma cos’è la Territà? È l’eros che ci lega alla Terra, è l’infinita varietà di modi in cui Homo sapiens l’ha pensata e immaginata nei millenni e in cui lo fa tutt’ora, è il debito biologico, cognitivo e simbolico che abbiamo verso i suoi paesaggi, è rigenerazione nel collasso, è ipotesi di salvezza. Territà è anche il metaracconto della nostra specie ai tempi dell’Antropocene, è il necessario superamento dell’Antropocene come lutto di specie, è mitopoiesi terrestre per fondare cosmologie non apocalittiche, per propiziare incontri con il lato di mistero che c’è nel mondo, è un modo ancestrale per frequentare il sacro inteso come “geofania” immanente. Ma, soprattutto, Territà è coltivare lo spirito d’avventura che da sempre spinge bande di adolescenti nelle foreste dell’altrove. Così, pochi mesi dopo Washington, ho lasciato Parigi e sono andato a vivere in Appennino. Portavo con me visioni di ghiacciai che scivolavano per Boulevard Arago o che scorrevano al posto della Senna contro le mura di Notre Dame. Attorno a me c’erano montagne basse, anonime, senza ghiacciai, eppure le loro masse azzurre e crepacciate erano lì, da qualche parte, invisibili, vaste, sopra torbiere di sfagno e laghi coperti d’erba ricurva. 

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