Elvira Notari: la patina e il vuoto

26 Marzo 2024

Fino allo scorso 19 febbraio, chi si fosse recata alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma avrebbe potuto imbattersi nella mostra “Panorama XIX”. Rifacendosi al modello della Wunderkammer, l’esposizione proponeva una selezione di opere tratte dalle collezioni della Galleria, in gran parte risalenti, come suggerisce il titolo, al periodo a cavallo tra la seconda metà dell’800 e la prima metà del secolo successivo. Accanto ai dipinti di Lega, Fattori, Balla e de Chirico, non mancavano però anche dei monitor, sui quali scorrevano sequenze tratte da alcuni dei film che, al pari della grande pittura, sono entrati a far parte della nostra storia culturale. E qui, tra una inquadratura di Fellini e una di Visconti, si poteva godere anche di alcuni estratti dai lungometraggi diretti da Elvira Notari. 

Ebbene, chi era Elvira Notari? E come è riuscita, dopo decenni di sostanziale oblio, a conquistarsi un posto – lei, donna e per di più confinata in quella sorta di ghetto storiografico che spesso è il cinema delle origini – nel canone del cinema italiano? È innegabile, infatti, che il suo corpus cinematografico abbia conosciuto soprattutto negli ultimi anni una meritata riscoperta, sia da un punto di vista di riassetto e recupero dei materiali, sia da un punto di vista eminentemente divulgativo. Riproposto da Quodlibet per le cure di Maria Nadotti a distanza di una trentina d’anni dalla prima edizione inglese (una prima traduzione italiana era apparsa nel 1995 per i tipi di La Tartaruga della benemerita Laura Lepetit), il volume di Giuliana Bruno Rovine con vista. Napoli e il cinema di Elvira Notari si pone quindi come testo fondante per quanto concerne gli studi su Notari, ponendo le basi di quella graduale riscoperta che ha elevato la regista e la sua opera al rango di pietra miliare.

Bisogna infatti ricordare che delle pellicole girate da Notari (una sessantina di lungometraggi dal 1910 al 1930, la serie di “Arrivederci” e “Augurali” – sorta di “cartoline filmate” realizzate su commissione per il pubblico degli emigrati – tra il 1906 e il 1911, attualità e documentari brevi databili fra il 1909  il 1912 e almeno un centinaio di cortometraggi della Dora Film d’America tra il 1925 e il 1930) soltanto i tre lungometraggi E’ piccerella (1922), ‘A santanotte (1922) e Fantasia ‘e surdate (1927) sono oggi visibili in forma completa, grazie a complesse operazioni di restauro. 

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Elvira Notari con il marito Nicola.

Elvira Notari – al secolo Maria Elvira Giuseppa Coda, nata a Salerno nel 1875 e morta nel 1946 a Cava de’ Tirreni – vive l'arte e la tecnica cinematografica in modo assoluto: oltre alla regia, cura la scrittura, la direzione degli attori (nel 1920 apre una scuola d'arte cinematografica), le scenografie e la colorazione dei supporti – mestiere quest'ultimo che condivide con il marito fotografo Nicola Notari. Considerata per tanto, troppo tempo prevalentemente “femminile”, quella del taglio e della colorazione della pellicola è un'attività che fra le mani di Notari acquista un valore nuovo: “Mentre le lavoratrici delle prime sale di montaggio rimasero delle semplici manovali della produzione cinematografica”, scrive Bruno, “Elvira Notari fu tra le poche che, dalla colorazione delle pellicole, arrivò a fondare la propria compagnia cinematografica”. 

Per le sue storie, Notari trae spunto dai testi letterari e dalle canzoni popolari, ma anche da fatti di cronaca, indice dell'esigenza di una scrittura materiale, plasmabile grazie alla sua visibilità. Importante l’influenza che la scrittrice Carolina Invernizio avrà su Notari (il lungometraggio Il nano rosso, 1917, è infatti tratto dal romanzo di Invernizio Raffaella o i misteri del vecchio mercato, 1905, come anche il film Chiarina la modista del 1919), in virtù del suo stile così adattabile alle esigenze della regista per un grande merito: quello di privilegiare “gli effetti e il coinvolgimento emotivo delle lettrici”. Non importa se figlie del dio Vesuvio, 'nfami, femmes fatales o madri di famiglia: il lavoro di Notari si pone come visione circolare di un mondo familiare e polifonico (le didascalie dei suoi film erano spesso redatte in vernacolo napoletano), capace di trasmettere la propria ricerca attraverso molteplici linguaggi. Non a caso, con la sua Dora Film la regista arriverà anche Oltreoceano, facendosi in certa misura portavoce dei sentimenti dei connazionali emigrati nelle Americhe.

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Fotogramma da E’ Piccerella, 1922.

Ciò che salta subito all’occhio, quando si parla di Elvira Notari è la misura con cui la sua figura artistica riesca, ancora e in special modo oggi, a restituire un approccio panoramico, quella “visione circolare” di cui si è detto sopra. Non solo dal lato prettamente storico-tecnico, come ricordato da Bruno (“La vasta presenza di scene dal vero nei primi film rivela l'inscrizione del cinema in una vera e propria prospettiva culturale: la visione panoramica del diciannovesimo secolo, che si espresse soprattutto nel panorama dipinto e nel diorama”); ma anche da un punto di vista personale: Notari è una figura il cui ampio occhio sul mondo non può essere che “scritto sul corpo”. Non a caso di recente è divenuta protagonista di ben due romanzi a sfondo biografico, Elvira di Flavia Amabile (Einaudi, 2022) e La figlia del Vesuvio di Emanuele Coen (SEM, 2023) – entrambi peraltro ampiamente debitori del lavoro di Giuliana Bruno.

Un lavoro nato, come ricorda l’autrice stessa, da uno studio cominciato negli anni Ottanta e sviluppatosi per larga parte in ambito anglofono; e che, malgrado gli anni trascorsi, rimane comunque un testo imprescindibile, tanto per la mole di documenti e testi analizzati, ritrovati e riletti secondo un’ottica storiografica e sociale, in perpetuo movimento verso “il transito del discorso femminile”; quanto (e, vien da aggiungere, soprattutto) per l’attento lavoro di collazione: “per ricostruire il caso della Dora Film”, spiega Bruno nel libro, “vista la difficoltà di rinvenire i documenti, non si poteva che procedere indiziariamente a margine dei testi esistenti, su adattamenti e citazioni: a partire dalle lacune, a poco a poco si sono fatti visibili gli altri testi”. 

Se è vero che il panorama, nella sua accezione di tecnica di riproduzione visiva, è un grande quadro sprovvisto di cornice in cui l'orizzonte sembrava andare oltre i limiti del campo visivo, allora anche le operazioni di collazione dell’opera di Notari devono necessariamente andare oltre il loro testo e contesto lacunoso: “Invece di rammendare le falle testuali di Notari nella presunzione di ridar vita all'originale d’autore”, spiega Bruno, “ho cercato piuttosto di mantenere le discontinuità e di renderle (in)visibili. Mi intrigava il movimento di (in)visibilità all'opera nelle attuali tecniche di restauro degli affreschi, una dinamica che, a sua volta, prevede la mobilità del punto d'osservazione; vista da lontano la superficie pittorica restaurata appare intatta e omogenea, eppure i punti mancanti, vale a dire l'intervento (analitico), sono evidenti allorché, guardando più da vicino, ci si accorge della diversa trama delle parti ricostruite”. 

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‘A santanotte, 1922.

La ricerca sull’opera di Elvira Notari non può far altro che associare l’essenza del frammento – visivo, testuale, storico – a un livello di comprensione universale, a un’estensione su così larga scala che, nei tempi e negli anni del suo formarsi e propagarsi, ha finito inevitabilmente per scontrarsi con la mutilazione di Stato: la censura. È qui, prima ancora che per la scarsa cura nella conservazione dei patrimoni audiovisivi, che il cinema di Notari conosce un primo e importante momento di disgregazione. Defraudato del suo tempo e del suo spazio, questo cinema, con il suo soffermarsi sull’indicibile umano (puntualmente sottolineato da Bruno: “comportamento sessuale e linguaggio indecente, suicidio, pazzia, ospedali psichiatrici, operazioni chirurgiche, soggetti crudi e repellenti, critica delle istituzioni e della legge, illegalità, omicidio e altri crimini”), non poteva sopravvivere a lungo all’avvento del fascismo. Osteggiata dal regime e messa in difficoltà dall’avvento del sonoro, nel 1930 la regista abbandonò l’attività, ritirandosi a vita privata.

Struttura e aspetto del lavoro cinematografico di Notari, riprendendo le categorie care a Cesare Brandi nella sua Teoria del restauro, sembrano quindi essere inscindibili nel tentare di dare una chiave ricostruttiva a una narrativa così legata al nerbo della sua territorialità, del suo tessuto metropolitano. Nello specifico, la presenza di “lacune e vuoti” nella ricostruzione del cinema di Notari non può che diventare una vera e propria voce di dialogo col futuro, “una funzione espressiva, poiché essi operano in un campo contrassegnato tanto dalla penuria quanto dal movimento nel tempo e nello spazio”. È possibile quindi che il cinema di Notari non abbia fatto intromettere tra se stesso e il suo “pubblico del futuro” nient’altro che l’inesorabile giudizio del tempo? E questo non ha fatto sì che si creasse, come per qualsivoglia opera d'arte, una sorta di “patina”, di fumoso distacco, tra gli interlocutori di ieri e quelli di oggi? Riprendendo sempre Brandi: “Dal punto di vista storico… la conservazione della patina, come conservazione di quel particolare offuscamento che la novità della materia riceve attraverso il tempo ed è quindi testimonianza del tempo trascorso, non solo è auspicabile, ma tassativamente richiesta”. 

Ed è forse proprio con il paradigma di quella “novità della materia” donata attraverso lo scorrere del tempo, che occorre seguire l’andamento di scoperta del corpus notariano, orientato verso la riappropriazione del godimento della propria consapevolezza.

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