Green Border: ai margini dell'Europa

22 Febbraio 2024

Il film di cui si occupa questo articolo è un film inutile. Anzi, per essere più precisi, anche questo articolo è un articolo inutile. È giusto che tu lo sappia, lettore, e lo sappia fin da subito. Sono anni che si scrivono articoli come questo, io stesso ne ho firmato più d’uno, sono anni che si girano film come quello di cui stiamo per parlare – solo negli ultimi mesi ne potrei citare altri tre, tutti validi, documentati e convincenti – e sono anni che nulla cambia. Mi correggo, non è vero che nulla cambia, le cose sono mutate, ma in peggio, e certamente non nella direzione auspicata da chi questi film e questi articoli ha girato e scritto. Quante giustissime grida sono state lanciate negli ultimi anni? Opere di denuncia civile e politica, grida sempre più alte e allarmate, data l'indifferenza che le circonda. È da questa inutilità, da questa sconfitta che bisogna partire. Chi dovrebbero scuotere e risvegliare queste grida? Di certo non lo spettatore che va a vedere film come quello di cui stiamo per parlare, e neanche tu, lettore, che hai iniziato, con le migliori intenzioni, a leggere questo articolo. Ma per non bruciare del tutto la tua fiducia, in questo ammiccare senza dichiarare, è il momento di chiudere questa premessa per ricominciare, con ordine, il discorso.

Il film di cui ci occupiamo è Green Border (nell’originale Zielona Granica, ovvero "Il confine verde") – della regista Agnieszka Holland, decana del cinema polacco – film che ha vinto il Premio Speciale della Giuria all’ultimo festival di Venezia. Il confine verde è la fascia di foresta primaria, una delle ultime in Europa, che separa, o sarebbe meglio dire unisce, Polonia e Bielorussia. Tra conifere e latifoglie, alci, linci, bisonti e pericolose paludi, corre la linea immaginaria – non c’è elemento geografico o fisico a cui appoggiarsi nella demarcazione – che definisce la topologia politica tra lo stato bielorusso e quello polacco. Ed è qui, in questo lembo di terra selvatica transfrontaliera, prezioso deposito della biodiversità del nostro continente ma anche territorio inospitale e insidioso, che si consuma uno degli episodi più vergognosi della gestione del fenomeno migratorio in Europa. Rifugiati siriani, curdi, iracheni, afgani, somali e di altre zone martoriate del mondo cercano da questo confine di raggiungere l’Unione Europea, confidando in rischi minori rispetto alle pericolose rotte del Mediterraneo. Per ritrovarsi invece letteralmente intrappolati in un crudele gioco al rimpallo, che tra violenze e soprusi li costringe a macerare, e spesso morire, in una terra di nessuno, dove la ferocia primordiale della natura impallidisce di fronte alla cinica e metodica ricerca della crudeltà degli esseri umani, e delle loro, in questo efficientissime, organizzazioni.

Agnieszka Holland (al centro) sul set del film.

La crisi migratoria tra Bielorussia e UE inizia nell’autunno del 2021. Un anno prima, il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko aveva represso nel sangue le proteste di massa contro il suo regime, con la conseguente imposizione di sanzioni da parte europea. A quel punto Lukashenko tuonò minaccioso che avrebbe inondato l’Europa di “droga e migranti”. Vengono aperti collegamenti aerei diretti dal Medio Oriente a Minsk e fiorisce un lucroso mercato di passatori attraverso la foresta di Białowieża, illudendo i rifugiati di poter finalmente raggiungere l’Europa in modo sicuro. Rifugiati come la famiglia siriana protagonista del film della Holland – madre, padre, tre bambini piccoli e il nonno – che incontriamo all’inizio della pellicola, ancora incredula di essersi lasciati alle spalle la guerra e i campi profughi e di potersi presto ricongiungere a un parente in Svezia, dove iniziare una nuova vita.  

Dalla speranza all’inferno. Per l’azione opposta, ma reciprocamente convergente, di un dittatore deciso a usare i migranti come pedine geopolitiche e di un governo xenofobo, quello polacco, determinato a tenerli a tutti i costi fuori dal proprio territorio, calpestando qualsiasi principio di accoglienza, migliaia di persone bisognose e fragili vengono ricacciate con cani e manganelli da una parte all’altra del confine. Picchiate, umiliate, lasciate in una zona grigia intermedia con cibo e riparo scarsi e mancanza di cure sanitarie e acqua pulita, senza poter entrare nella fortezza europea ma anche senza poter ritornare in Bielorussia. Le guardie di frontiera, da una parte e dall’altra, li insultano, gli portano via i soldi, distruggono i loro telefoni, non permettono di presentare domanda d’asilo (come avrebbero invece diritto in territorio UE). Li sottopongono insomma a tutte le sfumature dell’umiliazione fisica e psicologica alle quali i migranti sono costretti in ogni zona d’ombra – prigioni-zoo che assumono nomi e sigle, fateci caso, il più possibili fredde e burocratiche, come CPR Centri di Permanenza per i Rimpatri – di quel castello kafkiano che nei documenti ufficiali chiamiamo politica di gestione dei flussi. 

Agnieszka Holland registra tutto questo con estrema precisione – grazie a un lavoro di documentazione e scrittura con gli operatori sul campo, e alla scelta di far recitare attori con background migratorio, che hanno vissuto esperienze simili a quelle raccontate – in un bianco e nero che non nasconde nulla della disumanità che questo sistema perverso, volutamente perverso, di trattare i rifugiati porta avanti. "Ho deciso di non essere discreta e di prendere delle scelte stilistiche diciamo paraboliche, perché volevo che le persone sperimentassero ciò che stanno vivendo coloro che attraversano i confini, sia le vittime che i soldati di frontiera", ha detto al "Guardian" la regista, che ha subito pesanti attacchi e accuse di propaganda antipatriottica da parte del governo polacco. Un’aderenza fisica, una crudezza che può risultare forse eccessivamente esibita – i corpi lacerati, le piaghe, la morte insostenibile di un bambino annegato nella palude, donne incinte lanciate come sacchi oltre il confine – ma che è in qualche modo controbilanciata dalla capacità della Holland di ritagliarsi nel racconto, con discrezione, piccoli momenti allegorici di decompressione. 

La famiglia protagonista, ormai senza più energie e speranze, decimata, svuotata, seduta su un marciapiede di fronte a un muro in cui campeggiano le stelle sbiadite della bandiera europea. Uno stormo di uccelli migratori che vola libero nel cielo, infischiandosene dei confini che l'uomo a terra impone ai suoi simili. La scena in cui Jan, una guardia di frontiera polacca, si guarda allo specchio di notte, mentre la giovane moglie (incinta del loro bambino) dorme nel letto, lacerato dalla responsabilità morale di quel che è “costretto” a fare, perché, come ci ricorda Primo Levi, la violenza avviluppa insieme oppressore e oppresso. O, ancora, la forza di riscatto di Julia, uno dei personaggi principali del film, interpretata da Maja Ostaszewska, attrice nota in patria ma anche attivista di Grupa granica, il gruppo di coraggiosi militanti antirazzisti che cerca, tra mille difficoltà e repressioni, di fornire cibo e assistenza medica ai migranti. 

Agli attivisti Holland dedica un intero capitolo del film, mettendo in scena la frustrazione dei giusti che vogliono solo soccorrere chi ha bisogno di aiuto e vengono invece trattati da criminali, scontrandosi con una selva oscura di divieti, zone rosse, incriminazioni che, come in una favola nera, impediscono di liberare i migranti dal terribile maleficio che li costringe a non uscire dalla foresta, maleficio che non ha nulla di magico ma solo una squallida ragione politica. A partire dal 2022, per impedire ai migranti di attraversare il confine con la Bielorussia la Polonia ha costruito un muro alto 5,5 metri, che attraversa la foresta per 186 km. Il grande amore per i muri delle destre nazionaliste xenofobe parafasciste è diventato un sentimento comune e condiviso, al di qua e al di là dell’Oceano, mentre a Sud possiamo fare affidamento sul cimitero d’acqua del Mar Mediterraneo. 

E sempre nel 2022 si svolge l’epilogo del film. Siamo in un altro confine, quello tra Ucraina e Polonia. Dopo l’invasione russa e lo scoppio della guerra, le autorità polacche e la popolazione in generale si sono unite in una risposta piena di compassione e generosità per offrire rifugio e sostegno a milioni di ucraini in fuga. Nelle ultime scene del film vediamo persone che attraversano con calma la frontiera, riconosciamo la disperazione di chi scappa da bombardamenti e distruzione, alcuni con in braccio il proprio gatto, spaventato e spaesato, nume tutelare di una casa che non c’è più. E ad aiutare e rassicurare i profughi troviamo Julia e gli attivisti di Grupa granica. Perché loro non fanno differenze di origine e colore della pelle, mentre la Polonia, e l’Europa intera, non sentono neanche il bisogno di nascondere dietro parole vuote la propria ipocrisia, e l’evidente doppio standard di cui sono, siamo, portatori.

E quindi, sì, questo film è inutile, questo articolo è inutile. Dopo l’abisso degli stermini e dei genocidi del ‘900, con il culmine non esclusivo purtroppo della Shoah, sembrava che il riconoscimento dei diritti umani di chi è costretto a fuggire da guerre e persecuzioni fosse finalmente riconosciuto. Con la Convenzione di Ginevra del 1951 i rifugiati diventano un soggetto da proteggere, e per la prima volta si stabilisce una norma internazionale che non dovrebbe mai essere disattesa: nessuno può essere respinto verso un Paese in cui la propria vita o libertà possano essere seriamente minacciate. E sull’esortazione “MAI PIÙ” è stato costruito l’intero progetto comunitario europeo. 

E invece oggi l’Europa sperimenta sempre nuove forme di abominio giuridico per disattendere questo principio: navi-prigioni galleggianti, centri di identificazione e rimpatrio appaltati fuori dal territorio UE, lucrosi accordi di pattugliamento, polizia e lavoro sporco con paesi noti per torturare i migranti… e la lista potrebbe continuare. Forse la verità è che stiamo girando velocemente pagina, nuovi tonanti e profittevoli scenari si stanno aprendo per le nostre stanche democrazie, tra guerre presenti e future, massacri tollerati e minimizzati, e una voglia sempre più irresistibile di liberarsi finalmente di tutti i vecchi principi del diritto internazionale e comunitario. Benvenuti nel nuovo disordine mondiale. 

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